Nelle viscere della terra: l'archeologia industriale sarda | Cagliari - Vistanet

2022-04-26 08:22:49 By : Mr. Frank Lau

La Sardegna terra antichissima, conserva nelle sue viscere una ricchezza di minerali che l’uomo fin dalle epoche più remote ha saputo sfruttare. Con metodi via via più raffinati e complessi l’uomo ha estratto da profondità sempre maggiori preziose materie prime. Fino ad arrivare al secolo scorso, quando, cessate le attività estrattive nell’Isola, sono rimaste le miniere in disuso, i borghi quasi fantasma, immensi musei a cielo aperto di archeologia industriale a testimoniare di un mondo che ha influenzato la cultura e l’economia di moltissime zone della Sardegna, scopriamone insieme alcune.

Nel cuore della Sardegna, lontana dall’immagine turistica usuale dei panorami della nostra isola, fatti di mare cristallino, spiagge da sogno e dune soffici come talco, si trova una piccola perla. Funtana Raminosa. L’unica miniera di rame della Sardegna. Siamo nella Barbagia più incontaminata, tra rocce che assumono forme evocative come giganti buoni, castagni e pini contorti e un placido silenzio interrotto solo dal verso di qualche animale che si nasconde tra il fitto dei boschi.

Formazioni vulcaniche del paleozoico e tacchi di età mesozoica si sovrappongono e a valle il Flumendosa. Ed è proprio osservando le sue acque che i nuragici intuirono che la generosa madre terra, nel suo ventre custodiva preziosissimi tesori: i metalli. I bronzetti ritrovati nella zona ci raccontano di un’attività estrattiva cominciata già nell’800 a. C. I Romani continuarono ad estrarre il minerale con tecniche più raffinate, delle quali ci hanno lasciato ampie testimonianze. Non solo su come estraevano il minerale ma anche su come lo lavoravano. Nella Galleria Romana è possibile ammirare le armature di pietra e legno recentemente restaurate.

Se c’è un aspetto che caratterizza questa miniera è l’esplosione di colori delle pareti delle gallerie. Le rocce sembrano essere state dipinte da madre natura ispirata dall’arte astratta, come un Pollock creatore che miscela sapientemente i minerali da incastonare nella pietra per arricchirla e renderla cangiante, complice l’acqua che filtra a gocce o in piccoli rivoli. E così i sensi del visitatore godranno appieno di uno spettacolo unico. Mentre l’udito sarà cullato dal ritmico suono dell’acqua, l’olfatto avvertirà l’odore dell’umidità e della natura che si rigenera in essa. La vista sarà colmata dalle incredibili sfumature del rame, del ferro e dei sali di zinco. E l’ossidazione che regala incredibili filamenti di azzurro come vene pulsanti suggerirà all’osservatore che la terra è inconfutabilmente viva, impegnata in una lentissima ma inarrestabile evoluzione.

E non sarà meno emozionante ammirare i macchinari utilizzati dagli instancabili minatori. Attrezzi inquietanti come la perforatrice, simile a una mitragliatrice che gli operai maneggiavano abilmente per condurre la loro personale battaglia contro il rischio e la fatica. Ma la guerra non si conduceva solo coi muscoli. A Funtana Raminosa infatti il racconto è fatto anche di genialità. Incredibili macchinari ancora perfettamente funzionanti, esempio impareggiabile di archeologia industriale ci narrano di ingegneri capaci di progettare “mostri” meccanici di enorme potenza.

Nella centrale dei compressori d’aria c’è un macchinario che davvero si fa fatica a credere possa risalire al 1910: un motore diesel bicilindrico che alimentava il generatore di corrente che faceva funzionare le perforatrici, e faceva salire i vagoni sul piano inclinato. Così come è ancora perfettamente conservata la rampa che porta al tunnel lungo oltre un chilometro, all’interno del quale è stato allestito un piccolo museo con l’esposizione delle macchine più recenti. A testimoniare dell’altissimo livello al quale arrivava la tecnologia nelle miniere sarde e dunque all’importanza che rivestiva l’attività estrattiva nella nostra terra, la splendida laveria, risalente ai primi del ‘900: la prima in Europa a separare i minerali per flottazione selettiva.

Il sito di Funtana Raminosa che si trova a Gadoni, piccolo centro impoverito dall’inarrestabile spopolamento che come un’emorragia giorno dopo giorno porta via i giovani costretti a cercare lavoro altrove, all’apice della sua attività arrivò ad occupare più di 300 operai. Per questo introno alla miniera sorse un piccolo villaggio: le abitazioni, la scuola, lo spaccio, l’ambulatorio, il laboratorio chimico e le officine. Dalla fine degli anni ’70 cominciò il lento ma inesorabile declino. Che divenne più marcato negli anni ’80 e a nulla valse il supporto delle partecipazioni statali. Per salvare l’attività nel 1982 fu installato un impianto di trattamento del minerale da mille tonnellate al giorno che però lavorò solo otto mesi. 19 minatori occuparono i pozzi, a 400 metri sottoterra per venti giorni nelle condizioni più sfavorevoli all’uomo, nel disperato tentativo di impedire la chiusura della miniera. Nel 1983, nonostante il rame si trovi ancora in abbondanza nelle profondità della miniera, l’attività estrattiva cessò del tutto. Oggi riconvertita in sito di archeologia industriale rappresenta un nuovo punto di partenza, di attrazione turistica che racconta in modo originale e diverso dagli altri siti, quanta ricchezza si nasconde nel ventre della nostra antichissima terra per gli uomini e le donne che l’hanno saputa sfruttare.

Ogni sito minerario racconta una storia diversa. Vanta dei primati. E il sito minerario di Lula, Sos Enattos non è da meno. In questa miniera infatti si svolse nell’aprile del 1899 il primo vero sciopero dei minatori in Italia. Quello che diede inizio a durissime battaglie per i diritti dei minatori che si estesero poi ad altri siti minerari dell’Isola alcuni dei quali, come quello di Buggerru del 4 settembre del 1904, ebbero un esito tragico. E gli scioperi nelle miniere si sono ripetuti ciclicamente, nel corso dell’attività estrattiva dei siti sardi. Fino a quelli più eclatanti, indetti negli anni ’80 e ’90, nel disperato e vano tentativo di evitare la chiusura definitiva.

Successivamente i siti dismessi sono stati inseriti nel Parco Geominerario Storico Ambientale della Sardegna e hanno potuto vivere una seconda vita, progressivamente risistemati e aperti al pubblico. Il sito di Sos Enattos non è importante solo come testimonianza di archeologia industriale, ma anche perché inserito in un contesto ambientale di eccezionale bellezza, il Monte Albo, ricco di boschi di leccio, tassi, ginepri e macchia mediterranea popolato di mufloni e di aquile reali.

Anche a Sos Enattos l’attività estrattiva è cominciata in tempi antichi, si sa che in epoca romana, ci lavoravano schiavi condannati ad metalla, ai lavori forzati proprio nelle miniere. Nell’XI secolo D.C. , era stata fondata una colonia di schiavi ebrei gestita da un ricco possidente di nome Nabat o Nabatha.

Nel 1868 fu firmata la concessione della Miniera di Sos Enattos alla società Paganelli, che avrebbe estratto i minerali di argento e galena. Durante l’attività estrattiva però ci si rese conto che il giacimento era meno ricco di piombo argentifero ma nascondeva un importante giacimento di blenda. Tuttavia in quel periodo la blenda non era particolarmente ricercata. Nel 1905 la miniera passò alla Società Anonime Des Mines De Malfidano, compagnia mineraria franco-belga. L’attività estrattiva cessò momentaneamente per riprendere dopo la Seconda Guerra mondiale. Nel 1951 la RIMISA SpA. Chiede e ottiene nel 1962 una ”concessione mineraria”. Così la miniera di Sos Enattos vive un decennio di intensa attività caratterizzato dalla modernità delle attrezzature e da tecnologie all’avanguardia che si possono ancora ammirare.

Purtroppo però le speranze di un lavoro sicuro per i minatori si spengono nel 1971, quando il settore piombo-zincifero viene attraversato da una profonda crisi e dunque proprio mentre veniva fatto un importante investimento per intensificare l’estrazione del minerale in profondità, con la realizzazione del pozzo Rolandi, gli investitori privati si tirano indietro. Ancora una volta il futuro dei lavoratori delle miniere si trova in bilico e per loro si prefigura un periodo di speranze e disillusioni, determinate dagli interventi di enti come l’Ente Minerari Sardo che provano a rilanciare l’attività, ma con pesanti tagli al personale. Fino al 1996 quando anche questo sito minerario sardo cesserà una volta per tutte la sua attività.

A circa 2 chilometri da Lula sorge la chiesetta campestre di San Francesco d’Assisi, molto cara ai minatori e meta di pellegrinaggio. La leggenda vuole che sia stata costruita nel 1600 da un bandito nuorese per aver ricevuto la grazia dall’accusa di omicidio. Ogni primo maggio e 4 ottobre si celebra una festa. I pellegrini vengono accolti nelle “Cumbessias” delle piccolissime abitazioni costruite proprio a quello scopo, e viene offerta ai fedeli, la minestra calda con “Su Filindeu”, ( i fili di Dio ) una pasta particolarissima che si prepara solo in Sardegna.

La miniera di Sos Enattos è momentaneamente chiusa al pubblico, ma non appena verrà riaperta, merita una visita. Il magnifico contesto storico e ambientale incornicia una delle miniere più belle dell’Isola. E quando il visitatore affronterà la lenta discesa nell’ascensore aperto e piano piano avvertirà il cambiamento della luce, della qualità dell’aria, dei rumori ovattati dell’esterno che a poco a poco scompaiono e proverà a immedesimarsi nei minatori che ogni giorno scendevano nelle viscere della terra, si domanderà perché tenevano tanto a quel lavoro. La risposta è che le miniere non erano semplicemente un posto di lavoro, ma il fulcro di un universo in cui si consumava un’incessante sfida tra l’uomo e la natura. Una sfida nella quale ognuno, minatori e ingegneri, operai, sorveglianti, dirigenti, chimici e impiegati, donne uomini e bambini ricoprivano un ruolo preciso che dava un senso alla loro vita (talvolta fatta di estrema fatica e sfruttamento) ma garantiva a ciascuno la speranza di un futuro migliore.

Se c’è un luogo che può davvero raccontare agli occhi e al cuore cosa abbia significato la vita di miniera per gli uomini e le donne della Sardegna è proprio Montevecchio. Un luogo unico e incantato che è riuscito a intrappolare, a cristallizzare nel tempo, come un’istantanea, il senso della vita di una piccola comunità. Un mondo a parte che si può conoscere visitando il borgo e la miniera, una narrazione attraverso gli edifici che resistono, conducendo una lotta impari col trascorrere del tempo e il lento logorio delle intemperie, per conservare il ricordo di una stagione lavorativa e umana della nostra terra che non tornerà mai più.

L’attività estrattiva della miniera è durata quasi un secolo e mezzo, dal 1848, quando re Carlo Alberto concesse lo sfruttamento per primo a Giovanni Antonio Sanna, uomo illuminato, lungimirante, che in alcuni periodi della sua vita fu tra gli uomini più ricchi d’Europa. La palazzina arredata con i mobili dell’epoca, alcuni dei quali originali, mostra come si svolgeva la vita al suo interno, le sale del piano terra che oggi ospitano l’esposizione permanente di oggetti legati all’attività estrattiva appartenenti all’ultimo erede della famiglia Sanna, Castoldi. Al primo piano sale riccamente decorate per ospitare feste, l’incantevole “Sala Blu” che fa sognare e una splendida sala da pranzo, e ancora ambienti più piccoli dove i componenti della famiglia trascorrevano le loro giornate, per arrivare all’ultimo angusto piano, dedicato alla servitù, con stanzette arredate modestamente, gelide d’inverno e roventi d’estate.

Nel borgo, incastonato tra fitti boschi e il selvaggio mare di Piscinas, vegliato dal severo e inconfondibile profilo di Arcuentu, sono presenti edifici appartenenti a diverse epoche, da quelle della fine dell’800 a quelle risalenti ai primi anni ’40 in pieno Ventennio, memorabile e ricca di testimonianze la visita di Benito Mussolini. Accanto agli edifici adibiti ad abitazione per impiegati e operai, che è abbastanza semplice distinguere gli uni dagli altri, per la ricercatezza delle rifiniture, molto più economiche per i secondi, ci sono le strutture che ospitavano i laboratori, le scuole, l’ospedale e i momenti di svago. Bellissimi gli alloggi della foresteria dove è ospitato il particolarissimo museo dei diorami. Vi sono poi ospitati il museo dei minerali e quello dei gioielli della Collezione Castoldi che comprende anche alcuni reperti di epoca romana.

Accanto alla Palazzina della direzione si trova la chiesa di Santa Barbara, patrona dei minatori, una chiesetta nella quale ancora oggi il sabato sera si celebra la messa. Nella piccola piazzetta di fronte allo spazio che ospitava l’ufficio postale, operativo fino a qualche anno fa, si trova l’albergo “Al Cilnghiale”, un edificio tutelato, acquistato da privati attraverso un’asta pubblica e sottoposto attualmente a restauro. Nella piccola piazza campeggia un monumento dedicato alle 11 donne che il 4 maggio del 1871 persero la vita perché il tetto del capannone nel quale dormivano, cedette sotto il peso di un enorme serbatoio. Le cronache del tempo la definirono disgrazia. In realtà quell’evento fu l’esito di una logica comune al tempo (e non del tutto superata neanche oggi) , che considerava più importante il profitto della vita umana.

La miniera di Montevecchio visse momenti fiorenti, arrivò ad occupare più di 1100 operai e la visita a Piccalinna lo testimonierà, con la sua architettura particolarissima, fatta di torri smerlate in stile medievale. Le immense officine, i cantieri, l’imponente macchina d’estrazione, 120 cavalli vapore in grado di estrarre venti metri cubi di materiale all’ora: una macchina assolutamente all’avanguardia per la fine del XIX secolo, esempio unico al mondo, ancora perfettamente in grado di funzionare. È possibile visitare gli alloggi degli operai occupati fino agli anni ’20 in contrasto con lo sfarzo della Palazzina della direzione, dimore umilissime con un unica latrina condivisa da tante famiglie che parlano di una società rigorosamente divisa per classi sociali.

La visita a Montevecchio, gioiello di archeologia industriale, immersa in un contesto ambientale talmente selvaggio che i cervi vi pascolano lungo le strade, vi rimarrà nel cuore, soprattutto se avrete la fortuna di incontrare uno dei pochi abitanti che ancora risiedono nel borgo. Pazientemente vi racconterà di quel mondo, in cui si rischiava la vita, scavando il ventre della terra, così in profondità da avere tanto caldo, da non riuscire a indossare nemmeno la canottiera, da respirare aria convogliata dall’esterno, puzzolente e polverosa, convivendo con l’incertezza di tornare in superficie interi o addirittura vivi. Eppure mentre lo racconteranno rimpiangeranno quel periodo, di quando gli impiegati si imboscavano alle feste degli operai, perché c’erano le ragazze più belle, di quando arrivava la paga e si faceva il mercatino, si poteva comprare la carne e vedere crescere i propri figli in mezzo alla natura incontaminata. Allora capirete di essere stati proprio lì, dove il paradiso e l’inferno si incontravano sulla terra.

foto Parco Geominerario della Sardegna

Porto Flavia Porto Flavia è una tappa che non può mancare se si vuole fare un viaggio all’insegna dell’archeologia industriale. Questa miniera infatti rappresenta una sorta di unicum. Un capolavoro di ingegneria, per l’epoca assolutamente avveniristico: un tunnel lungo 600 metri che sbuca nel bel mezzo di una parete di roccia a strapiombo che dà direttamente sul mare. Si trattava di un sistema di imbarco del materiale estratto dalla miniera e destinato alle fonderie del nord Europa, direttamente sulle navi, che riduceva così i tempi e soprattutto le spese di trasporto. Fino a quel momento infatti il materiale estratto veniva trasportato a mano e caricato su piccole imbarcazioni a vela che trasferivano il materiale al porto di Carloforte da dove poi prendevano il largo per il continente In pratica furono costruite due gallerie sovrapposte, nella superiore si caricavano i silos di grandi dimensioni, da quella inferiore, grazie a un braccio mobile i minerali estratti venivano caricati direttamente sui piroscafi.

Porto Flavia si trova a Masua, nel Sulcis, e fu realizzato tra il 1922 e il 1924, fu chiamato in questo in modo in onore di Flavia la figlia di Cesare Vecelli, il direttore che progettò il capolavoro tecnologico. L’attività della miniera cominciò intorno alla metà dell’800 e crebbe fino a contare più di 700 addetti alla fine del secolo. Negli anni venti visse un momento di rilancio grazie alla società Vieille Montagne, poi però piano piano cominciò il suo declino. Come sempre intorno ai grandi siti minerari anche a Masua sorse un villaggio, con la sua chiesa, la scuola, l’ospedale e le abitazioni degli operai e le loro famiglie, a Masua è presente anche un museo, il Museo delle Macchine da miniera che ospita numerosi macchinari e attrezzature per l’attività estrattiva. La bellezza di Porto Flavia e di tutto il sito minerario non si limita però all’archeologia industriale, la miniera infatti si trova inserita in una meravigliosa cornice, quella del mare sardo. Davanti a Porto Flavia infatti, si trova una piccola spiaggia, acqua cristallina e panorama mozzafiato. All’orizzonte si staglia Pan di Zucchero, un monumento naturale, un faraglione di roccia alto 133 metri e modellato dall’azione della natura.

Rosas Rosas si trova vicino a Narcao, scoperta nel 1832 venne riconosciuta come area mineraria nel 1849 e nel 1851, ottenne dal re Vittorio Emanuele II la concessione per l’estrazione della galena, come Società Anonima dell’Unione Miniere del Sulcis e del Sarrabus. Nella miniera Rosas si estraevano piombo, zinco e ferro. Restò attiva sino al 1980 quando venne chiusa definitivamente. Il complesso degli edifici e delle strutture minerarie è stato recuperato e ristrutturato. È stato creato il Museo Villaggio minerario di Rosas che comprende anche strutture ricettive. Come in molti siti minerari sardi, si trovano apparecchiature ancora funzionanti che testimoniano del livello tecnologico avanzato per l’epoca. All’interno della laveria si possono ammirare i grandi mulini per la lavorazione del minerale. Lo stesso edificio ospita anche il museo. Si può visitare la galleria di Santa Barbara in cui si possono osservare le difficili condizioni di lavoro dei minatori, e quanto fosse duro il lavoro di estrazione di piombo e zinco. Ci sono poi gli edifici come l’ex ufficio postale, la direzione, i depositi, le fucine, la foresteria e gli alloggi dei minatori.

Ripartiamo dalla Sardegna Sardegna, capace di abbracciare il mondo

Le meraviglie dei muri colorati sulle case della Sardegna, la tradizione legata a un gruppo di artisti che a partire dalla fine degli anni Sessanta hanno creato un vero e proprio museo a cielo aperto in alcuni comuni dell’Isola.

Le bellezze particolari di una serie di musei, che raccontano tradizioni e usanze sarde e sono visitati ormai da migliaia di turisti e appassionati. Non solo arte e archeologia ma anche usi e costumi per una riscoperta della società isolana del secolo scorso, dove l’elemento agropastorale era il più importante nella vita di tutti i giorni.

Sono ormai poco più di cinquant’anni che la Sardegna è diventata terra di murales, i magnifici dipinti realizzati sulle mura degli edifici e dalle tematiche più disparate, dalla vita quotidiana, alla politica, passando per i fatti quotidiani. Il muralismo ha origine in Messico intorno agli anni Trenta e prende piede in Sardegna dalla fine degli anni Sessanta. La tecnica utilizzata, nella maggior parte dei casi, è una pittura ad acqua per interni. Le tematiche e gli stili sono mutati nel tempo ma si è partiti con il naif e il realismo, passando per l’impressionismo e i dipinti infantili.

Nato come espressione creativa libera dei movimenti di protesta, nel tempo il muralismo è diventato una forma d’arte, che riesce ad unire valore estetico e sociale.  Questo tipo di pitture sono eseguite da più persone sotto la guida di un “mastro” di riferimento. Nei primi murales erano presentate soprattutto il malessere e le speranze, di una comunità, quella sarda, alla perenne ricerca di stabilità, sociale ed economica. I murales si deteriorano velocemente e non sempre diverse opere rovinate sono state riprese. Nel tempo questa tendenza è cambiata, anche grazie all’alto valore artistico acquisito da molte di queste opere.

I murales rappresentano ormai un patrimonio culturale dell’Isola, un’altra importante peculiarità intorno a cui far ruotare un turismo fiorente. Patria dei murales in Sardegna è senza dubbio, Orgosolo, paese barbaricino dove possono essere ammirate oltre 150 opere realizzate a partire dal 1969, quando il collettivo artistico anarchico milanese Dioniso, realizzò il primo. Molte di queste opere sono bellissime e migliaia di turisti arrivano ogni anno nel paese barbaricino per ammirarle. Molti di questi murales, soprattutto i più vecchi, sono frutto del lavoro del professore senese Francesco Del Casino, che nel 1975 diede il via a quella che è stata una vera e propria scuola, che ancora va avanti. La svolta in occasione del 30° anniversario della Liberazione: Del Casino, insieme ai suoi allievi andò avanti con la realizzazione di tanti altri murales, a cui successivamente diedero il proprio contributo gruppi e artisti locali. Questa scelta artistica portò a una vera e propria esplosione artistica: numerosi comuni infatti cominciarono a commissionare ad artisti locali e non dei murales per rendere più belle e singolari le facciate delle case dei paesi.

Altro luogo simbolo dei murales in Sardegna è San Sperate, il Paese-Museo, che con oltre 300 opere è la località isolana con il maggior numero di murales, tra cui spiccano quelli realizzati dall’artista del luogo Pinuccio Sciola, ideatore nel 1968 di questo progetto che nel tempo ha coinvolto centinaia di artisti provenienti da tutto il Mondo.

Altri murales si trovano in numerose altre località della Sardegna: Fonni, Mamoiada, Tinnura, Oliena, Villamar, Serrenti, San Gavino, Serramanna, Montresta, Palau, Guspini e Suni.

Negli anni Ottanta prese piede la corrente muralista legata alla vita quotidiana, sarda e agropastorale: pastori e greggi, contadini al lavoro nei campi e casalinghe con i propri figli. Un filone “realista” che divenne espressione diretta di una società che vuole trasmettere e far conoscere usi e costumi anche al di fuori dell’Isola.

Altro centro importante, soprattutto in quest’ottica “realista” e contadina è Villamar nel Medio Campidano: qui i murales si sono diffusi a partire dal 1976 grazie a due esuli cileni Uriel Parvex e Alan Jofrè. Subito dopo il fenomeno conobbe un vero e proprio impulso grazie a due artisti locali, Antonio Sanna e Antonio Cotza. Il primo privilegiò le tematiche “realiste” e quindi la quotidianità del suo paese, Cotza invece diede risalto ai fatti internazionali e alle vicende storiche isolane.

Un altro paese storicamente importante per i murales in Sardegna è Serramanna, sempre nel Medio Campidano. Qui il fenomeno esplose negli anni Settanta per esprimere il disagio giovanile. Significativo il murale con tematiche di emigrazione realizzato nel 1979 dal gruppo di Ledda, Dessì, Putzolu e Arba “Emigrazione è deportazione”.

Oltre a Orgosolo e San Sperate, dove l’attività muralista è sempre viva, negli ultimi anni è esplosa una florida e vivissima corrente artistica a San Gavino, altra località del Medio Campidano, letteralmente rilanciata e non solo artisticamente (prima regnavano disoccupazione, povertà e spopolamento) dall’associazione Non Solo Murales, un gruppo che si occupa non solo di street art, e che ha cambiato i connotati del paese. Da un’idea nata per caso, per ricordare un amico scomparso, oggi a San Gavino si possono ammirare decine e decine di murales. Tutto è cominciato nel 2013, quando viene a mancare prematuramente Simone Farci, per tutti “Skizzo”. Per ricordarlo i suoi amici organizzarono un evento di musica e di cucina, le sue passioni.

Nella raccolta di fondi avanzano alcune centinaia di euro, che il gruppo di amici decide di utilizzare per creare qualcosa di duraturo, che piaccia alla gente ma che sia soprattutto in memoria di Skizzo. Nasce l’idea del murale. Giorgio “Jorghe” Casu, l’ormai affermatissimo (le sue opere sono conosciute in tutto il Mondo e abbelliscono alcuni dei palazzi più importanti del pianeta), grande amico di Skizzo, decide di realizzare un’opera a San Gavino.

Il murale viene inaugurato nell’estate 2014 con grande partecipazione di tutti i cittadini. Gli amici di Skizzo a questo punto realizzano che davvero uno spazio bello e curato può essere benefico per la vita comunitaria del paese. Da allora Casu ogni estate ritorna a San Gavino Monreale e crea una sua opera. Tanti altri artisti hanno fatto e fanno lo stesso, dando vita a un vero e proprio boom di street art. Muralisti del calibro di Ericailcane, Spaik e Gabriel Moreno sono passati da San Gavino, insieme a molte associazioni giovanili impegnate nel campo dell’arte e della riqualificazione urbana.

I muri sangavinesi sono messi a disposizione dal Comune e dagli stessi abitanti, orgogliosi di come la loro città si stia trasformando. Nel 2016 gli amici di Skizzo (che nel frattempo si sono moltiplicati) danno vita a “Non solo Murales di San Gavino Monreale Paese di Artisti”, una vera e propria associazione. Non solo Murales gestisce la realizzazione delle opere murarie, si occupa della riqualificazione e della pulizia dei luoghi che ospitano le stesse opere e inoltre organizza una serie di percorsi turistici per andare ad ammirare i murales di San Gavino Monreale. Il resto è storia recente.

Dai murales ai musei particolari, la Sardegna offre una miriade di collezioni “speciali”, che vanno oltre l’archeologia e la storia dell’arte e le raccolte più conosciute, i musei Archeologico di Cagliari, il Sanna di Sassari e la Pinacoteca, nella Cittadella dei Musei. Si tratta di collezioni conservate in musei etnografici, di arte contemporanea, mineralogici, tradizione, storia e artigianato, realtà più o meno nuove, potenzialmente importanti a livello turistico, soprattutto nelle zone più remote dell’Isola.

Partiamo dall’Orto Botanico di Cagliari, un vasto spazio verde nel centro storico della città, che conserva migliaia di specie vegetali, alcune molto rare, provenienti da tutto il mondo, e al suo interno un’area archeologica che custodisce un gran numero di reliquie romane. L’Orto botanico occupa la parte bassa della valle di Palabanda, in un’area compresa tra Anfiteatro romano, Orto dei cappuccini e villa di Tigellio. Casa museo Sa Dom’e Farra, Quartu Sant’Elena: sa Dom’e Farra (casa della farina), custodisce in una magnifica casa campidanese, attrezzi agricoli, e “Il ciclo della vita”, dove sono esposti ottomila oggetti tradizionali (XVIII-XX secolo), relativi alla quotidianità agro pastorale dei lavoratori sardi nel corso Dell’Ottocento e del Novecento.

Museo Grazia Deledda, Nuoro. A Nuoro si trova la casa natale della scrittrice Grazia Deledda, premio Nobel per la Letteratura nel 1926. L’edificio, della seconda metà dell’Ottocento, si trova a Santu Pedru, il rione dei pastori che, uno dei più antichi agglomerato della città, è un esempio d’abitazione nuorese del ceto benestante. Si sviluppa su tre piani, con corti interne al pianterreno e raccoglie oggetti e immagini relativi alla grande scrittrice, premio Nobel per la Letteratura.

Museo della vita e delle tradizioni popolari sarde, Nuoro. In un complesso di edifici la più completa esposizione etnografica dell’Isola. Costruito tra anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo sul colle di sant’Onofrio, su progetto dell’architetto Antonio Simon Mossa, è oggi uno dei complessi museali più visitati dell’Isola, e raccoglie costumi, oggetti e materiali che raccontano al meglio la nostra Isola.

MAN, Museo d’Arte della provincia di Nuoro. Espone oltre 200 opere di prestigiosi maestri sardi del ventesimo secolo, tra i quali Antonio Ballero, Giuseppe Biasi, Francesco Ciusa, Giovanni Ciusa Romagna, Mario Delitala, Carmelo Floris e Costantino Nivola. Vanta inoltre l’unica raccolta di disegni e ceramiche di Salvatore Fancello e del corpus grafico dell’opera di Giovanni Pintori. Sarà possibile ammirare anche magnifiche mostre temporanee storiche e tematiche sui maggiori rappresentanti della storia dell’arte del Novecento, che il MAN allestisce ogni anno.

Parco Museo S’Abba Frisca, Dorgali. Tradizioni, saperi, sapori, suoni e profumi della cultura barbaricina immersi in uno splendido contesto paesaggistico. Una combinazione di natura ed etnografia all’interno del parco museo s’Abba Frisca, nella vallata di Littu. L’itinerario del parco-museo nasce dalla riqualificazione e valorizzazione di una vecchia azienda agricola e si snoda per 400 metri tra camminamenti megalitici, alberi secolari, siepi di macchia mediterranea e di piante officinali o tintorie. L’elemento dominante è l’acqua: la sorgente s’Abba Frisca, oltre che dar nome al parco, alimenta fontane, cascate, zampilli e un laghetto, popolati da germani, anatre, gallinelle e tartarughe.

Museo Nivola, Orani. Le opere del grande artista di Orani nel museo a lui dedicato all’interno dell’antico lavatoio del paese, su una panoramica collina. Qui sono conservate più di 200 opere esposte che documentano l’estro creativo e l’originalità di chi coniugava valori, storia e tradizioni della sua terra con ispirazioni creative, maturate da incontri con artisti suoi contemporanei in Europa e America. Stazione dell’Arte, Museo di Arte Contemporanea, Ulassai.

Fantastica esposizione nell’ex stazione ferroviaria di Ulassai, in Ogliastra, dove nacque Maria Lai. Un museo allestito in tre caseggiati che si affacciano su una valle circondata da Tacchi calcarei, a pochi passi dal paese. Qui è custodita un’ampia collezione (150 opere) della grande artista morta nel 2013: ceramiche, libri cuciti, telai, tele e terrecotte donati al paese.

Museo all’aperto Maria Lai, Ulassai. Un grande ciclo di opere dell’artista conosciuta in tutto il Mondo, allestito nelle vie del paese, all’aperto e all’interno di alcuni degli edifici storici di Ulassai.

Museo delle maschere mediterranee, Mamoiada. Un punto di contatto tra tradizioni sarde e di altre regioni mediterranee nel paese del Nuorese, noto in tutto il mondo per i Mamuthones e gli Issohadores. I riti carnevaleschi ma non solo relativi al diffuso uso di maschere facciali di legno con forme animali e grottesche, di pelli di pecora e montone, di campanacci e altri oggetti che generano suoni frastornanti. Un percorso che espone quei travestimenti, tipici di comunità di contadini e pastori, nei quali si riconosceva un’influenza sulle sorti dell’annata agricola. Un museo profondamente identitario nel quale le maschere, quasi sempre volutamente spaventose, hanno una valenza al tempo stesso apotropaica e propiziatoria.

Il museo della statuaria preistorica in Sardegna ospita una collezione unica: 40 monoliti-menhir (perdas fittas in sardo), alcuni giganti, documentano lo sviluppo tipologico delle statue antropomorfe nel III millennio a.C., alla scoperta di espressioni figurative e simboliche dell’età dei primi metalli nell’Isola e della tradizione megalitica europea. Il percorso museale si articola nei due piani dell’ottocentesco palazzo Aymerich, dimora signorile neoclassica al centro del paese. Dieci sale, con pannelli e supporti multimediali, sono dedicate a statue preistoriche di Sarcidano e territori vicini. L’undicesima espone reperti ceramici, di metallo e in pietra (da Neolitico antico a Bronzo antico), provenienti da siti megalitici, come dolmen di Corte Noa e tomba di Masone Perdu.

Museo nazionale garibaldino, Caprera. Il magnifico scenario degli ultimi 26 anni di vita dell’Eroe dei due Mondi. Immerso nel verde e circondato dal mare dell’arcipelago della Maddalena, la “Casa Bianca” di colui che concepì e preparò le azioni che segnarono la storia del Risorgimento italiano.

Un’architettura semplice e rustica, i cimeli, gli oggetti e i ritratti che raccontano quotidianità e affetti di Giuseppe Garibaldi.

Museo mineralogico sardo, Iglesias. Il museo si trova nei sotterranei dell’Istituto Minerario Asproni, pregevole edificio Liberty. Il percorso museale ospita le attrezzature per il trasporto del materiale, gli esplosivi e le macchine utilizzate per gli scavi e le perforazioni. L’esposizione è finalizzata a documentare e illustrare il mondo della miniera in Sardegna (fondamentale sino al secolo scorso per la vita economica e sociale dell’Isola) e comprende anche un’importante raccolta di materiale fotografico d’epoca, di minerali, di modellini e plastici, in scala, che hanno fatto la storia dell’arte mineraria. Il percorso continua con la ricostruzione di una piccola officina meccanica e la visita ad un impianto di flottazione, per il trattamento dei minerali.

Ripartiamo dalla Sardegna Sardegna, capace di abbracciare il mondo

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